Da qualche anno il mondo delle applicazioni “containerizzate“ sta crescendo in modo rapido e sistematico. Già nel 2018 IDC nel suo white paper “The Rise of the Enterprise Container Platforms” prevedeva una rapida evoluzione di questa tipologia di ambienti e architetture a micro servizi.
Poiché le applicazioni moderne vengono progettate direttamente con un approccio a micro servizi, le architetture basate su container hanno preso velocemente piede, in particolare per applicazioni legate a servizi business critical e analytics (Spark, Kafka, ElasticSearch, Splunk ecc.).
Con la proliferazione dei mondi cloud (pubblici, ibridi, privati) è stato fisiologico pensare ai container anche per applicazioni esistenti, trasformandole da architetture monolitiche ad architetture a micro-servizi.
Cosa manca quindi a questa nuova tipologia di ambienti applicativi per essere adottata praticamente in tutte le aziende del mercato?
Facciamo un passo indietro: pensiamo a come il mondo della virtualizzazione ha preso piede, rispetto alle applicazioni che venivano eseguite direttamente sui server fisici. Il numero di macchine virtuali, in particolare quelle basate su VMware, che detiene circa il 75% del mercato virtualizzato, ha superato di gran lunga il numero di macchine fisiche dedicate ad una o più applicazioni. I motivi li conosciamo tutti: semplicità di gestione, controllo, successo nell’esecuzione dei backup e delle restore, disaster recovery e business continuity semplificati. Prevalentemente quindi si tratta di strumenti legati alla protezione del dato e alla disponibilità applicativa, molto più semplici da gestire in un contesto virtualizzato rispetto al mondo fisico.
L’esplosione delle applicazioni basate su container è parzialmente dovuta alla ulteriore semplicità di gestione e ai legami sempre più forte tra l’applicazione e il servizio infrastrutturale che la regge. A differenza delle macchine virtuali “classiche”, infatti, i container non hanno un sistema operativo proprio, ma ereditano quello del server fisico su cui girano, creando un rapporto uno a uno tra l’applicazione e il servizio stesso, che gira all’interno del container.
Nel corso degli anni gli Hypervisor sono stati notevolmente migliorati con l’aggiunta di caratteristiche in grado di proteggere e semplificare la gestione delle macchine virtuali; VMware ad esempio ha introdotto la suite vRealize, in grado di fornire caratteristiche avanzate rispetto alla semplice capacità di far funzionare applicazioni virtualizzate. Questi strati software ad alto valore aggiunto, mancanti o non altrettanto avanzati nelle altre piattaforme di virtualizzazione, sono stati probabilmente quelli che ne hanno decretato un successo così massiccio e una presenza capillare in moltissime aziende nel mondo.
E il mondo dei container? Sappiamo che Docker, forse la piattaforma più diffusa nella gestione di ambienti basati su container, gestisce e automatizza il deployment di applicazioni all’interno dei contenitori software. Da solo, tuttavia, farebbe fatica a sfondare in un mondo Enterprise perché non offre le funzionalità a valore aggiunto di cui le applicazioni hanno bisogno. Sono stati quindi creati altri strumenti, come ad esempio Kubernetes, in grado di gestire facilmente cluster di ambienti basati su Docker, garantendone efficienza, scalabilità e alta affidabilità.
Tuttavia, per un impiego massiccio da parte del business, mancano ancora alcune caratteristiche, soprattutto legate alla business continuity, al backup, al disaster recovery e alla coesistenza in un cloud ibrido, ovvero un’unica gestione sia dei container posizionati on-premise, che di quelli posizionati in un provider cloud pubblico.
Portworx, recente acquisizione da parte di Pure Storage, è un’azienda che ha creato una serie di strumenti software, in grado di colmare queste lacune, e di “vestire” il mondo dei container di tutte le caratteristiche di gestione del dato necessarie in ambito enterprise.
Portworx permette una gestione dati avanzata in ambito container, creando uno strato software di data management, capace di imbrigliare e gestire facilmente tutte le componenti storage sottostanti, che possono essere multi-vendor, on-premise o in cloud. Questo è il lavoro della componente PX-Store.
La gestione automatica delle risorse e il bilanciamento ottimale relativamente all’accesso ai dati, viene invece affidato a PX-Autopilot, che come indica il nome stesso, permette di evitare pesanti operazioni manuali di manutenzione dello storage.
L’applicazione di policy di sicurezza, controllo degli accessi, e compliance aziendali sono invece affidate a PX-Secure, in grado di garantire alle applicazioni basate su container il rispetto delle regole di sicurezza aziendali e internazionali.
Come indicato precedentemente, un’applicazione non può essere pronta ad un utilizzo business critical se manca di meccanismi di protezione facilmente gestibili: backup, business continuity e disaster recovery, nonché della possibilità di essere trasportata facilmente in contesti diversi, multi-vendor e tra provider diversi. Questi temi sono perfettamente indirizzati dalle componenti PX-Migrate, PX-Backup e PX-DR.
Pure Storage grazie all’acquisizione di Portworx quindi, eleva notevolmente il livello di servizio applicativo in ambienti container, in maniera analoga a quanto continua a fare già da diversi anni per tutti gli ambienti di Datacenter con le proprie architetture storage; comune denominatore è il fatto che sia nella proposizione Portworx, che in quella più propriamente storage, il software è la componente differenziante rispetto alle altre soluzioni di mercato, in grado di semplificare drasticamente la gestione e garantendo flessibilità e resilienza che le applicazioni business critical esigono.
Per ulteriori approfondimenti non esitate a contattarmi.
Umberto Galtarossa
Channel Technical Manager – Pure Storage Italia